Chi sa disegnare percorsi nuovi non è chi segue il consumatore. È chi cammina con lui
Nuovi modelli di customer journey
Ciao sono Matteo e benvenuti in una nuova uscita di Digital Scenario.
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Oggi vi parlo di nuovi modelli di marketing, di mappe d’influenza e dell’impatto digital di Belve Crime. Siete pronti?
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C’è chi (in)segue e chi cammina a fianco dei consumatori
Per anni abbiamo trattato il marketing come un imbuto.
Un percorso ordinato, logico, misurabile: dall’awareness al consideration, fino alla conversion.
Un modello rassicurante, lineare, scolpito in ogni slide di strategia.
Poi è arrivata la realtà.
Più sfocata, più veloce, più imprevedibile.
Una realtà in cui il consumatore non cammina più in fila indiana, ma si muove tra piattaforme, stimoli e contenuti come in una rete. Una rete che lo avvolge, lo ispira, lo confonde e — a volte — lo porta a comprare.
Il punto è che non esiste più un percorso. Esistono comportamenti.
E secondo Boston Consulting Group e Google sono quattro quelli che oggi modellano il modo in cui le persone scoprono e scelgono un brand. 4S che non sono buzzword, ma sintomi di un cambiamento strutturale.
Streaming
Il contenuto non si guarda, si vive.
Tra YouTube, CTV, podcast e video on demand, lo streaming è diventato un flusso costante di narrazione personalizzata. Non è più un momento passivo, ma uno spazio dove il brand può entrare, se sa come farlo.
Serve un contenuto che non interrompa, ma accompagni. Che non spieghi, ma suggerisca. Che non venda, ma generi coinvolgimento.
Scrolling
Lo scroll è il nuovo zapping.
È il gesto quotidiano con cui passiamo dal nulla al tutto, senza una reale intenzione. Ma proprio lì, nel mentre, qualcosa può succedere. Un visual che cattura, una caption che funziona, un creator che dice la cosa giusta.
Non è programmazione, è intuizione.
Il brand che vuole farsi notare deve imparare a giocare il tempo breve, senza sembrare superficiale.
Searching
La ricerca non è più solo scrivere una query su Google.
Oggi cerchiamo parlando con un assistente AI, usando la fotocamera, mescolando testo, immagini, voce. Cerchiamo recensioni, facce, esperienze.
Cerchiamo conferme. Cerchiamo fiducia.
E ci aspettiamo risposte rapide, visive, pertinenti. Il brand che non si fa trovare nel modo giusto, nel momento giusto, semplicemente… non esiste.
Shopping
Il momento d’acquisto non è più l’ultimo step.
È ovunque. Dentro un reel, sotto un video, dentro una chat, durante una diretta.
L’acquisto non è più conseguenza. È interruzione controllata di un’esperienza.
Per questo oggi ogni touchpoint può essere anche uno shop point. E ogni messaggio deve sapere come diventare anche conversione fluida.
Da funnel a comportamento
Il marketing non può più permettersi di pensare in linea retta.
Deve pensare in cerchio.
In ambienti, in movimenti, in stati mentali. Deve capire che non si tratta più di portare il consumatore da A a B, ma di entrare nel suo flusso. Di costruire presenza, non solo pressione. Di diventare parte dell’esperienza, non il suo disturbo.
Le 4S non sono un nuovo modello da applicare.
Sono uno specchio.
Ci mostrano dove siamo, e soprattutto dove sono gli altri.
Chi comunica oggi ha davanti una sfida meno prevedibile, ma molto più interessante:
non inseguire il consumatore, ma sintonizzarsi con i suoi comportamenti.
E solo allora, forse, sarà ascoltato davvero.
Influence Maps, un marketing che assomigli un po’ di più alle persone
Ma come è possibile mettere “a terra” il cocnetto delle 4S e il nuovo aradigma che ne segue? Per fare questo Boston Consulting Group e Google hanno costruito un nuovo framework: le influence maps.
Mappe dinamiche che tracciano come — e quanto — un brand riesce a influenzare le persone nei diversi momenti del loro percorso.
Non è un esercizio grafico. È un modo per leggere i comportamenti.
Per capire non solo dove arriva un messaggio, ma quando lascia il segno.
Per passare dal cosa comunichiamo al come influenziamo.
Per costruire percorsi che non siano tunnel, ma reticoli dinamici, dove ogni touchpoint ha un peso specifico, e ogni scelta può essere (o non essere) la vera svolta.
Il valore? Inizia a emergere proprio quando smettiamo di considerare il funnel come unica direzione.
Perché chi compra oggi non è un target da colpire, ma una persona da incontrare nel momento giusto.
E l’influenza è una geografia. Non una strategia.
L’AI diventa un alleato insostituibile
Sta dove deve stare: a servizio, non al centro.
Sta dove i dati non bastano più.
Dove le correlazioni si moltiplicano.
Dove il tempo per capire, ottimizzare, creare... non basta mai.
Ma dentro questo scenario così complesso, l’intelligenza artificiale non è un lusso, è una necessità.
Perché solo l’AI oggi può aiutarci a:
leggere pattern di comportamento impossibili da individuare a occhio nudo;
ottimizzare in tempo reale l’allocazione dei budget;
e soprattutto, personalizzare contenuti in base al percorso dell’utente.
Non è più (solo) questione di automazione. È intelligenza adattiva.
È scegliere dove puntare le risorse, come declinare i messaggi, a chi parlare e con che tono — con coerenza, rilevanza, e risultati concreti.
Perché il senso resta uno: non automatizzare il marketing, ma umanizzarlo attraverso la tecnologia.
Che non è un paradosso. È l’unico modo per non smarrirsi.
I sei step necessari in questo journey
Individuare i percorsi di influenza principali: Non si parte dal contenuto. Si parte dal comportamento. Guardare dove vanno le persone, non dove vorremmo che andassero. Studiare i dati come fossero orme nel fango: indicano direzioni, raccontano intenzioni. Dalle recensioni agli unboxing, dalle ricerche vocali ai commenti di un creator. Ogni percorso non è solo traffico: è fiducia in movimento.
Costuire le influence maps: Non tutte le mappe servono a trovare la strada. Alcune servono a capire dove perdi l’attenzione. Visualizzare i comportamenti, disegnare i punti di contatto, collegare le 4S come se fossero tappe di un racconto frammentato ma coerente. Ogni mappa è uno specchio: ci mostra dove siamo davvero nel percorso di chi ci guarda, ci cerca, ci scorre.
Ripensare il marketing plan: Il piano non è morto. Ma deve diventare vivo. Deve adattarsi al ritmo degli utenti, cambiare pelle come cambia il contesto. Ridisegnare messaggi, formati, canali. Scegliere partnership che abbiano senso oggi, non solo ieri. Ogni touchpoint può diventare una porta. Ma solo se capiamo a cosa apre davvero.
Valutare il tuo livello di adozione dell’AI: Non è una gara a chi ha più tool. È una questione di consapevolezza. Dove siamo davvero? Quanto dell’AI è parte dei nostri flussi, e quanto è ancora hype? Le aziende che l’hanno integrata crescono più in fretta. Ma solo perché l’hanno fatta diventare parte del pensiero strategico, non un accessorio.
Sfrutta l’AI dove serve davvero: Non ovunque, non sempre, non tutto. L’AI funziona quando la facciamo lavorare sul concreto: analisi, misurazione, predizione, adattamento creativo. Fa ordine dove c’è rumore. E accorcia il tempo tra l’idea e il risultato. Ma chiede direzione. E il timone resta nostro.
Scegli i percorsi su cui testare l’AI: Non dobbiamo fare tutto. Dobbiamo fare bene. Il segreto è partire da un punto. Un touchpoint, un journey, un’esigenza chiara. Che sia dal social alla scheda prodotto, o da un blog a un video adv, non importa. Quello che conta è partire dal reale. Perché è lì che l’AI si dimostra utile: non nei casi ideali, ma nei casi vissuti.
Verso un marketing che sa cambiare forma
Il consumer journey oggi è un vortice. Ma non è ingestibile.
Ci sono strade che sembrano inutili. Interazioni che non si convertono.
Feed che passano inosservati. Ma che, messi insieme, creano quello spazio fragile e prezioso chiamato relazione.
Con le influence maps Google ci spinge a disegnare traiettorie invece di tunnel, fare strategia su comportamenti invece che su fasi, parlare al presente invece di inseguire il passato.
Il vero cambio di paradigma è questo: non prevedere ogni passaggio, ma sapersi adattare a ogni possibilità.
Perché chi sa disegnare percorsi nuovi non è chi segue il consumatore.
È chi cammina con lui, anche quando non sa ancora dove sta andando.
Campagne e progetti da urlo
Little Fighters - Huggies
A tutto Insight: Belve Crime, quando il true crime smette di essere solo tv
Non è più solo questione di share.
Non basta contare gli ascolti per capire l’impatto di un programma come Belve Crime, perché ormai la tv vive fuori dalla tv. Vive nei commenti, nei reel, nei tweet, nei video TikTok. Vive nel rumore — e nelle domande — che genera.
E Belve Crime, nella sua versione crime, questo rumore lo ha generato con forza. A volte con entusiasmo, più spesso con polemica. Ma lo ha fatto.
Con la unit Insight di Openbox abbiamo realizzato un’analisi dedicata. I nuemri? Il programma ha registrato oltre 18.000 mention, più di 1,8 milioni di interazioni e 37,5 milioni di impression solo nel periodo monitorato. Un impatto enorme, amplificato dalla scelta di raccontare il caso Yara Gambirasio e di concedere spazio a una figura controversa come Massimo Bossetti.
Una scelta narrativa forte, che ha acceso un dibattito serrato tra etica, giornalismo, sensazionalismo e diritto di parola. Il risultato? Un sentiment polarizzato, ma anche un’attenzione fuori scala.
Dentro questo scenario, emerge una figura: Francesca Fagnani, che si conferma non solo volto del programma, ma anche garante di un certo stile. La sua conduzione è tra gli elementi più apprezzati online, insieme alla qualità dell’intervista e alla costruzione del racconto.
Ma il dato davvero interessante è un altro: Belve Crime non ha solo parlato al pubblico televisivo. Ha generato un’interazione intensa e articolata con un’audience nativa social, pop e mainstream, giovane ma non solo. Un pubblico che ha trasformato il programma in un terreno di discussione culturale — tra indignazione, ironia e bisogno di capire.
Su TikTok i video connessi al format hanno superato i 10 milioni di view, con un engagement alto e contenuti generati non solo da RaiPlay ma da creator e utenti comuni. Il true crime diventa così meme, commento, posizione, con contenuti che fanno da cassa di risonanza alle dinamiche televisive, ma anche le riscrivono, le remixano, le problematizzano.
L’analisi dell’audience conferma questa trasversalità. Gli utenti coinvolti appartengono a cluster molto differenti: appassionati di tv e talent, utenti informati politicamente, fan culture e addirittura tifosi di calcio. Tutti accomunati da un elemento: la familiarità con i social e la propensione a partecipare attivamente alle conversazioni.
In un tempo in cui la tv da sola non basta, Belve Crime mostra come l’impatto vero si giochi nel fuori campo. Nei commenti, nei like, nei messaggi che trasformano la narrazione in discorso pubblico.
Ed è lì che oggi — piaccia o no — si costruisce il valore reale di un contenuto.
Non solo nell’audience. Ma nella conversazione che genera.
Scrivimi a m.pogliani@open-box per avere l’analisi completa
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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