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C’è un problema di tone deaf su TikTok?
Sentiamo da anni, soprattutto con l’affermarsi prima delle Instagram Stories e poi di TikTok, di quanto sia necessario abituarci ad un estetica nuova relativamente ai contenuti che guardiamo. Per la serie non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che intrattiene.
Dalle estetiche patinate e fin troppo costruite prima della tv e poi delle prime esperienze social, Instagram su tutte, ci siamo trovati nella costrizione di ricercare qualcosa di diverso, autentico… vero. Una risposta quasi immunitaria che ha toccato tutto/tutti e che ci ha portato negli anni a preferire i reality agli show strutturati o un creator/influencer al giornalista o attore di riferimento.
Una spinta accelerata in maniera netta dalla pandemia e dagli scossoni emotivi portati e che ha trovato sui social, TikTok in particolare, una via d’espressione primaria. E non è affatto un caso che TikTok faccia ufficialmente della spontaneità e di contenuti non troppo strutturati esteticamente (sì, a volte possiamo pure dire “brutti”) una delle sue maggiori leve di successo, spostando l’attenzione dall’estetica, appunto, alla finalità: intrattenere e divertire in modo diretto, senza fronzoli. Vi faccio un esempio: sono settimane che il mio per te mi mostra un account che fa vedere, in modo totalmente aderente alla versione televisiva (per questo ci sono le bande nere nella parte superiore e inferiore), il programma sulla security negli aeroporti. Non l’ho MAI visto in tv, mai ricercato e credo anche skippato quando ci finivo per sbaglio sopra. Bene, nella riproposizione TikTok, in quell’ambiente non solo ho passato ore a vederli, ma addirittura ricercavo le puntate successive. Una questione di immersione in quell’ecosistema e nelle sue diversissime regole.
Ma questo sacrosanto adattamento alla piattaforma e alle sue caratteristiche estetiche porta sempre più con sé anche rischi. Dall’abbassamento netto della qualità (meno grave forse perché aderente al giudizio di chi guarda), alla ricerca e continua riproposizione dei trend, sino ai flussi, spesso con poche uscite, dell’algoritmo e di cosa ci viene mostrato.
Ma il più serio è quello dell’eccesso, quello relativo al Tone Deaf, ovvero non comprendere il tono e l’approccio corretto per inserirsi in una conversazione o per trattare un tema. Un problema “grave” se parliamo di comunicazione, un problema che spesso, nelle abitudini di fruizione di piattaforme e contenuti sembra lentamente appannarsi. Un approccio figlio di questa spontaneità e del rispetto del canale, ma che spesso travalica il buon senso/gusto e che porta a diminuire pesantemente il senso critico, facendovi preferire, per forza, la volontà di pubblicare, di dire la propria su qualcosa in tendenza.
Lo dico spesso, TikTok mi ricorda come elementi cardine tantissimo il Twitter dei bei tempi e non a caso anche lì si era arrivati spesso pericolosamente vicini. Qui però abbiamo una forma di contenuto di maggior impatto, il video, arricchita dalla capacità di tenerci connessi del canale. Un mix pericoloso.
Veder schiacciare un brufolo o spelare un uovo è davvero un valore aggiunto? Certo è che su TikTok sono nati e prosperano anche filoni di contenuto molto interessanti, ma una riflessione va comunque fatta. Perché il “buongiorno pescheria” o “con mollica o senza” vanno più nella direzione di dare quei famosi 15 minuti di celebrità, e spingerli poi al successo, in una dicotomia che tocca da un lato l’immedesimarsi (non l’affinità che è cosa diversa) e la speranza (potrà succedere anche a me allora), dall’altro la roulette dell’algoritmo che, spesso, premia senza una vera ragione, ma che poi spinge come una vera macchina dell’hype tali profili. E quando poi con i numeri non si distingue più la differenza tra figura e trend il gioco è fatto.
Altri esempi di questa vita borderline? La tiktoker Cecile Max e il brand cosmetico Bioré in un video raccontano di come i patch per pulire i pori del naso siano stati un aiuto a gestire l’ansia di cui soffre causata da una sparatoria a scuola.
Oppure l‘account di @Influencerpovera, ragazza che vive in uno stato di povertà e che lo racconta (spesso in modo molto crudo) in TikTok con risultati sorprendenti. Perché? Per una questione di voyeurismo (non certo etico) stile animale in gabbia e perché ci piace, in fondo, vedere chi sta peggio.
Dov’è l’equilibrio tra tutto questo, tra la spontaneità ed estetica di canale e la necessità di proporre un certo grado di qualità e di approccio? Difficile da dirsi lato utente, più facile lato brand.
Dico spesso alle aziende con cui lavoro che devono ripensare la loro immagine e i loro standard se vogliono utilizzare e far fruttare TikTok, ma è altrettanto vero che adattarsi non vuol dire svendersi. Diventa fondamentale mantenere coerente il proprio branding e TOV, perché altrimenti il rischio è perdere di coerenza, di riconoscibilità.. di identità. E le views tutto ciò non lo ripagano sempre.
L’uso di creator e influencer potrebbe essere la migliore risposta, dandoci sì l’opportunità di avere contenuti d’impatto e in linea che parlano di brand e prodotto, ma con un distacco capace di tutelarci (un minimo). In questo caso l’issue passa nella corretta selezione dei creator e nella loro affinità non solo con le nostre audience, ma ancor prima con il marchio.
Campagne e progetti da urlo
The Next Enemy Plants - Einhell
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Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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