Di immaginari e branding
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Compriamo immaginari prima di brand
Oggi scrivo in trasferta ed è da Bari (grazie a La Content per l’invito) che parto (non solo per tornare a casa). Ricordo i pranzi fatti e penso che la Puglia in generale, ma ancor di più la focaccia barese sia un ottimo esempio di cosa significhi creare una corretta narrazione a supporto di un brand/prodotto. Narrare non tanto per raccontare, quasi di più per lavorare sull'immaginario, collettivo aggiungerebbe il professor Maurizio Cecconi di Villaggio Globale o sulla reputation come diremmo noi digital. Ma ci torniamo dopo su questo punto.
È la terza volta che vengo a Bari, tra l’altro con toccate e fughe di pochissimi giorni. Eppure la focaccia barese so benissimo cosa sia: conosco gli ingredienti e ne ho chiara l’immagine. Questo nonostante sia difficile trovarla in giro, soprattutto in Toscana dove vivo. E la risposta che mi viene è proprio quella: immaginario.
Ma quello che diceva Cecconi funziona meglio e non solo perché era un genio competente e dai modi garbati. Parlava spesso del concetto di immaginario collettivo e di quanto fosse rilevante quando parlavamo e progettiamo cultura. Non credo di aver capito realmente cosa intendeva all’inizio (o forse lo banalizzavo), ma il concetto era più semplice o almeno evidente di quanto pensassi. Lui che aveva (r)inventato il Carnevale di Venezia quando era assessore non aveva fatto che questo: esaltato l’immaginario collettivo che le persone avevano di Venezia e la sua storia. Quello che vediamo oggi al Carnevale non è altro che quell’immaginario (giusto o meno che sia nella realtà) tramutato in realtà, tra abiti, maschere, feste (opulenza). E chi il Carnevale lo deve promuovere (ne ha davvero bisogno?!?) non ha la minima necessità di raccontare cosa sia o come si sviluppi. Lo “storytelling” è arrivato prima, secoli fa e basta. Avanza per tanti versi.
Ma lavorare sull’immaginario non è (sempre) cosa da brand. Ma neanche impossibile. Guardo il profilo TikTok di Burberry e questo concetto, quello dell'immaginario che si fa per branding, mi pare tanto tanto tanto evidente. Una feed in cui il prodotto c’è, ma meno di quanto si pensi. E non c’è neanche quando sembra ci sia, tra torte di cake design che sembrano borse o tagliatelle, ma non quelle di Nonna Pina, con il famoso pattern del marchio. Senza pensare alle creazione di creator, che incidono sulle punte di matite e lapis elementi iconici del brand.
Parlare del prodotto/servizio serve a chi non l’ha già fatto prima o, meglio, a chi per tempo non ha compreso la propria storia e l’ha narrata così da farla divenire immaginario per gli utenti. Che il trench di Burberry sia o meno in grado di proteggermi sotto la pioggia non interessa poi molto, anzi, lo do per scontato, anzi, neanche ci penso. Il Motivo? Perché nella mia mente è sedimentata l’idea che sia così.
Un’opportunità/leva gigantesca, ma anche limitante perché cambiare un’idea è qualcosa di complesso, molto più che convincere. È un altro sport diciamo. Non a caso le attività di riposizionamento o rebranding sono tanto complesse, delicate. Bisogna essere convinti, molto convinti di ciò che si vuole essere.
“Il seme che pianteremo nella mente di quell'uomo, diventerà un'idea che lo condizionerà per sempre. Potrebbe cambiarlo... può arrivare a cambiarlo radicalmente” (Dom Cobb in Inception)
Dobbiamo quindi essere sempre meno creativi, nell’essenza più classica della parola, e sempre più esperti di content curation: dobbiamo far emergere la storia, adattarla, esaltarla. Non una cosa per tutti o, almeno, non per tutti così evidente. Certo, il caramellaio che ha lasciato Milano e vive e produce in un borgo abbandonato dell’Umbria ci facilita la vita in tal senso, ma le buone intuizioni imprenditoriali hanno quasi sempre una buona storia alla base (se così non fosse non gli serve un esperto di comunicazione, ma un miracolo). Sta a noi comprendere quale.
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My 2 Cents
Sottovalutiamo troppo alcuni touchpoint o, meglio, strumenti di contratto. Sarà che sono più “old” o non hanno quel tocco di innovativo ed esotico che piace a tanti (troppi).
In tal senso non può non venirmi subito in mente la newsletter, strumento che ha raccolto tanto nei primi anni del marketing digitale e che oggi vive una seconda vita. Substack è certamente un ottimo esempio di questa rivalutazione, strettamente connessa, a una riscoperta del valore dei contenuto più “profondi”, ricchi per certi versi. Un fatto che va nella direzione dell’attuale dicotomia tra contenuti dalla fruizione rapida, i formati short, e altri, invece, molto più ampi come, ad esempio, le live di Twitch.
La vera differenza, tornando alle newsletter, è il senso di utilità, per la serie che quando leggo devo trarne un valore aggiunto. Una news, un’offerta, notizie dal mondo o di settore. Per fare questo serve uno sforzo editoriale maggiore e la necessità di capire come poter essere utile agli iscritti. Un’esigenza che si colma con analisi e test sul campo e che ci porta (altro tema hot) alla personalizzazione dei messaggi, perché non tutti abbiamo le stesse necessità.
Penso che l’esperimento fatto da Mulino Bianco sia interessante. Ogni giorno alle ore 7 gli iscritti ricevono tre #BuoneNotizie da tutto il mondo, selezionate dalla redazione giornalistica di Good Morning Italia. La volontà è di sottolineare il concetto di buongiorno, strettamente connesso alla colazione e, quindi, ai prodotti del brand.
Insight del mese
Gli obiettivi di fidelizzazione delle aziende italiane - Osservatorio Fedeltà dell’Università di Parma
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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