Di nicchia e gourmand, come i profumi
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I contenuti sono gourmand, profumano e ci restano attaccati alla pelle
Leggevo in settimana un articolo su Il Sole 24 Ore di Giampaolo Colletti sul valore delle nicchie e di come i brand stiano comprendendone l’importanza. Nulla di nuovo sotto il sole, ma è indubbio che l’evoluzioni degli ultimi anni e l’influsso di TikTok abbiamo realmente riportato al centro il tema della verticalità, spingendo a riflessioni su come sia meglio rapportarsi con audience più limitate, ma molto più “sul pezzo”, facendo leva sul trasporto e la forza connettiva di interessi/passioni realmente condivise. Quelle che Mark Schaefer definiva Alpha Audience e che sono e sono tutt’ora basi rilevanti per la crescita di creator.
Ma serve un passo oltre. L’alpha audience è infatti il primo passo, un passo che va coltivato e fatto evolvere, continuando a lavorare su interessi verticali perché possa diventare ancor di più valore aggiunto. Da audience a community, rafforzando e democratizzando gli interessi comuni e facendone network in una forma di validazione peer-to-peer capace di riuscire là dove altre forme di marketing falliscono.
Qual è la differenza tra alpha audience e community? Nella maggior connessione certo, ma soprattutto nella maggiore opportunità di interazione, in cui il brand non è perno, ma anello di una maglia ben più ampia e in cui ogni componente (utenti in primis) ha (o può avere) un ruolo rilevante attraverso conversazioni, feedback, UGC. Un rapporto il più possibile tra pari (almeno nelle premesse), ma ancor di più pluridirezionale e che vuol essere partecipativo. Ed è proprio questo uno dei punti chiave: senza partecipazione non c’è community.
Se l’interesse, la nicchia, è utile come aggregatore e collante non basta per rendere attiva, “partecipata”, la relazione, dando quel senso più ampio alla presenza dell’utente. È qui che arriva la necessità del contenuto o, meglio, di come raccontare/interpretare la verticalità, rendendola quel necessario attivatore per i membri della community.
Il problema oggi non è infatti tanto capire i topic da trattare, quanto il come farlo con impatto. Un linguaggio che varia da target a target, da canale a canale e che va compreso e fatto proprio. Ma sta proprio qui la parte complicata, soprattutto per i brand spesso incapaci (per competenza, volontà o paura) di realizzare contenuti adatti, rispettando gli stilemi del canale e le aspettative degli utenti. Ma va detto chiaramente: non c’è una formula precisa. Tutt’altro. Il senso di qualità si sublima e i suoi elementi diventano molto complessi da valutare. Ed è questo a creare complessità.
Non è affatto un caso che la risposta a questo problema sia spesso l’utilizzo dei creator, figure che, invece, hanno assolutamente il controllo di quegli stilemi, riuscendo in quel racconto. Si spiega così la prassi diffusa in TikTok (molto più che in altri canali) di coinvolgere i creator non solo in ottica di earned (sfruttando cioè le loro audience), ma di branded content, facendogli quindi realizzare contenuti da pubblicare sul profilo del brand o da impiegare lato advertising.
Un “come” a livello di racconto che non è solo questione di interazioni, ma diventa elemento essenziale per farci restare “attaccati” e impiegare il nostro tempo libero lì e non su altri canali/piattaforme. E vi dico di più, spesso riesce a tenerci lì al di là del tema d’interesse, diventando driver di scoperta, facendoci appassionare a cose che non sapevamo neanche esistessero.
Godor o gourmand erano parole che non conoscevo prima di vedere i contenuti di @alexperfume, così come non avrei mai pensato di passare ore a vedere video che parlano di profumi. Magari ho solamente scoperto una nuova passione (forse), ma fidatevi che molto, moltissimo, sta nel suo modo di raccontare quel mondo e fartici entrare con leve diverse: consigli, emozione, sorpresa.
Così come non avrei mai detto di guardare ore di trattative sulla vendita di oggetti di lusso e sulla valutazione se siano o meno falsi. Merito dell’algoritmo certo che ti porta a scoprire cose nuove, ma soprattutto del “come” questi contenuti sono realizzati. E ripeto, per come non parlo di qualità di produzione.
Ha ragione il buon Niccolò Di Vito (la leggete già la sua newsletter sui video, vero?!?) quando mi dice che serve un approccio meno da esperto di video e più da autore (amen) e infatti alla sua domanda se sia meglio un cameraman in più o un autore io ho risposto come Quelo, “la seconda che hai detto”.
Non è un’abdicazione dell’estetica e della forma, quanto un cambio nel suo essere percepita a favore di altri elementi come la semplicità, la credibilità, la leggerezza. Elementi a cui si aggiunge poi il concetto di right time, right place, ovvero l’essere idonei per quel tipo di fruizione e canale.
Certo che l’occhio vuole sempre la sua parte, ma ci sono casi in cui c’è da badare al sodo e arrivare al punto. Se voglio capire quale profumo sia meglio per il mio prossimo colloquio di lavoro o avere consigli su come vivere una vita più sostenibile per il pianeta mi interesserà molto meno che il video abbia una fotografia pazzesca. Qualcuno so che ci rimarrà male, ma piaccia o non piaccia è così. Essere esperti di contenuto oggi è un bel problema perché costringe ad essere molto più trasversali a livello di competenze, ma soprattutto richiede una grande sensibilità e capacità di essere affine agli utenti. Non basta più produrre un “buon” contenuto in senso canonico, quel buono oggi si è rarefatto, allargando enormemente il suo portato e andando ben oltre gli elementi tecnici. Una sfida che va affrontata anche e soprattutto in divenire, pensando di formare figure e team che vadano in quella direzione.
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My 2 Cents
Resto piacevolmente stupito dai tanti esempi di queste settimane sull’utilizzo dei tool di AI, da Midjourney a Chat gpt, sorpreso dal clamore sugli impatti che avranno, ma credo che il punto non sia tanto questo, quanto le riflessioni su come queste andranno, giocoforza, integrati nelle attività dei brand e, di conseguenza, delle agenzie. E qui serve una visione allargata e lungimirante, non fermandosi al “faccio un’immagine” o “faccio scrivere un post social”.
Trovo molto più interessante la capacità di trovare, analizzare e valutare informazioni più che la scrittura di testi. Ad esempio la possibilità di chiedere la realizzazione di analisi, sfruttando la capacità di “leggere” e interpretare una mole enorme di informazioni in tempi rapidi oppure di interpretazione di nostri dati di performance su attività o campagne, avendo feedback in tal senso.
Un abilitatore sì, ma a livello più alto. Ed è proprio questo “alto” a far la differenza e, secondo me, a salvaguardare il nostro ruolo.
Kudos
Un “bravoni” ai ragazzi di Kettido per il primo esempio di utilizzo di AI per creare immagini social fatto in Italia. In questo caso per Mulino Bianco.
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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