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Oggi vi parlo di salsa, anzi, di comunicazione ad effetto.
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La salsa è finita
Da buon fan di basket adoro l’NBA e con lei tanti di quei fenomeni che fanno magie su quei parquet. Uno di quelli più belli e spettacolari è “Il Barba” James Harden. Sarà per come gioca, per quella barba iconica o forse per la sua celebre esultanza. Ogni volta che segna (e fidatevi, succede spesso) il buon Barba fa un gesto con la mano come se stesse aggiungendo la salsa su un piatto. Sì perché lui “cucina” sul campo gli avversari per poi metterci il tocco in più, la salsa.
Tenetela lì la salsa del Barba perché dopo serve.
Tornando a cose più “serie” in questi giorni su LinkedIn la fa da padrone la news sul fallimento di Burgez, la nota catena fast food italiana celebre per la sua comunicazione irriverente e anti convenzionale (forse troppo?).
Non è mai bello quando una realtà ha problemi, e lungi da me cascare nella sindrome del maestrino, dato che ogni situazione è diversa e bisogna viverla per parlare. Ma penso che il caso Burgez, proprio per la preponderanza della sua comunicazione, meriti qualche riflessione.
Credo, tra l’altro, che i pensieri su Burgez siano, per la natura stessa della sua comunicazione, facilmente estendibili ai tanti casi "geniali" (?!?) di Real Time Marketing e simili osannati dagli addetti ai lavori.
Il punto è che la salsa, seppur buona, non sfama. E non sfamerà mai. Può rendere molto migliore un piatto, ma non sarà mai “il piatto”.
Comunicare strategicamente
Viviamo nel tempo dell’overload creativo, dei concept brillanti, dei video che scivolano lisci su Instagram e dei copy che fanno il giro dei like.
Ma c’è una domanda che spesso resta sospesa — e che pochi hanno voglia di farsi davvero: quello che stiamo dicendo ha senso per il brand? Per il prodotto? Per lo sviluppo immaginato? Per il settore in cui operiamo?
Perché la comunicazione, da sola, non è strategia. È esercizio. È linguaggio.
E senza una direzione chiara e una sinergia con il piano marketing, rischia di diventare solo un bel rumore di fondo.
Il punto non è fare bene qualcosa.
Il punto è fare qualcosa che abbia senso e sviluppo.
Quando marketing e comunicazione si muovono scollegati dalla sostanza, si vede.
Magari non subito, ma si vede. E peggio ancora: si sente.
Perché la coerenza non è solo un tema narrativo, è un atto di rispetto.
Verso chi guarda, chi legge, chi compra. Ma anche verso il lavoro che stiamo facendo.
A urlare si perde la voce e non si parla più
C’è un tempo, nella vita di ogni brand, in cui l’urlo serve.
Serve a farsi vedere. A esistere in un feed saturo. A entrare a gamba tesa nella testa di chi non ti conosce.
Ed è giusto così.
Le azioni di guerrilla, gli stunt, il “purché se ne parli” hanno un loro ruolo. Soprattutto all’inizio, quando la visibilità è moneta e il posizionamento un work in progress.
Ma confondere la miccia con la traiettoria è un errore che costa caro.
Perché la guerrilla, per quanto efficace, è tattica.
E una tattica, per definizione, non basta a sostenere un’identità nel lungo periodo.
Il problema non è il colpo a effetto.
Il problema è quando il colpo a effetto diventa la norma, l’unica leva, l’unico linguaggio.
Quando si dimentica che ogni grido, se non è inserito in un discorso, diventa solo rumore.
Un brand non cresce a forza di provocazioni.
Cresce a forza di coerenza, di visione, di direzione strategica.
Cresce quando ciò che comunica è allineato a ciò che promette — e a ciò che poi fa.
Il clamore è utile.
Ma il senso (e l’orientamento verso i consumatori) è necessario.
E un’identità che vive solo di exploit, prima o poi, esplode davvero.
Siamo marketer non artisti
Ci piace parlare di valori.
Di purpose, di visioni alte, di creatività che emoziona e ispira.
Ed è giusto farlo. Il brand è anche questo: narrazione, identità, posizionamento valoriale.
Ma serve ricordare una cosa semplice, a volte scomoda:
le persone non seguono un brand (solo) per i valori. Lo seguono per i servizi/prodotti che offre. Per un bisogno. Un problema. Una utilità. Un interesse che, spesso, è molto più concreto di quanto i nostri claim suggeriscano.
Può sembrare “triste”, ma così non è. È la realtà e come ogni verità funziona.
Non si è bravi quando si comunica bene altrove.
Si è bravi quando si riesce a farlo dentro il proprio perimetro.
Ok i campi affini, l’estensione di narrazione, i progetti di branded entertainment, ma credo che ci sia davvero sfuggita di mano la cosa. Il confine è infatti più labile di quello che pensiamo.
So che abbatterò il morale di molti, ma la nostra competenza c’è quando si è capaci di essere originali parlando di ciò che si vende, non di ciò che distrae.
Perché la creatività fine a se stessa è un’illusione elegante.
Funziona per farsi notare, ma non costruisce reale valore nel medio/lungo periodo.
Ecco allora che la vera sfida non è stupire.
È restare rilevanti dentro il proprio territorio.
Essere riconoscibili non solo per gli effetti speciali, ma per ciò che si sceglie di dire.
Lì si gioca la partita vera.
E lì, spesso, si vede chi sa fare comunicazione e chi, invece, da solo da mangiare al proprio ego o al branding di sé stesso o dell’agenzia.
Campagne e progetti da urlo
Purrcast - Whiscast
My 2 Cents
Ho visto lo spot, tutto in AI, fatto da Kalshi per le NBA Finals (non una cosa da poco insomma). Mi verrebbero un’infinità di spunti, positivi e negativi, ma credo che la cosa più importante è che questi contenuti ci costringano a far pace con molte delle sovrastrutture che colleghiamo al nostro lavoro.
La prima, che dico spesso, è che non esiste più un concetto univoco di “bello”, ancor di più se collegato alla comunicazione.
Quel “brutto” voluto, quel linguaggio visivo sbagliato per scelta, ha anche un nome: slop.
Contenuti generati male, casuali, senza contesto. Non come errore, ma come codice estetico.
Un linguaggio post-contemporaneo che rifiuta l’ordine, disintegra l’armonia, eppure… funziona.
Non è più brutto. È memetico.
Non è più nonsense. È engaging.
La qualità non è più l’unità di misura (almeno non l’unica) dell’efficacia di un contenuto/campagan/progetto.
Il reale parametro è l’attenzione e, ancor di più, la ricaduta che questa poi genera (altrimenti, come dicevamo, è solo salsa). Perché il nodo resta trovare il punto d’intersezione tra tutto questo e il “senso” che il brand deve dare perché la comunicazione “venda”. E non sia solo abbaglio e distarzione.
Difficile. Difficilissimo a tratti.
Chiudo con un altro punto chiave: per capire quell’impatto (sempre ci sia) serve andare molto più “deep” in fase di misurazione e valutazione dei risultati. Ma molto molto di più.
Branded Entertainment & Creator
Questo il tema del mio intervento al WMF.
Se volete saperne di più sul rapporto, sempre più stretto, tra branded entertainment e influencer/creator potete scrivere a matteo.pogliani@40degreees.it e vi manderò, molto volentieri, le slide.
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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