L'estinzione del Piano editoriale
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Oggi parliamo del PED che muore, di carbonara e AI e di sfumature.
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Il piano editoriale che non c’è più
Come la SEO e il Dio di Guccini sono anni che leggo che il caro, vecchio, vituperato piano editoriale ci ha lasciati sull’onda di un’altra celebre “morte”, quella dell’organico.
E se riguardo all'organico non dovete fidarvi di me, ma bastano gli insight, eloquenti, dei principali canali social. Persino in TikTok, tra un video che “ha funzionato” e l’altro, in quella terra di mezzo di risultati (scarsi), è sempre più fondamentale il push media, anche solo per stabilizzare, in parte performance che, per loro stessa natura, sono altalenanti (auguri quando dovete fare delle stime senza ads). Ebbene sì, il sostegno media serve, per QUALUNQUE, contenuto pubblicato. Sia per raggiungere certi KPI che per dargli senso (siamo sicuri che anche quando l’organico funzioni mi porti dagli utenti che voglio?), ma anche e soprattutto per giustificare un investimento in contenuti che è e sarà sempre più rilevante (almeno sino a che l’AI non farà ancora qualche gradino).
La grande verità che deriva da questo primo punto è che i social non sono più touchpoint low cost (se lo sono mai stati), utilizzati più per il CPM basso che non tanto perché ci si credeva. Il corollario a tutto questo è netto: oggi scegli di utilizzare i social (se una scelta c’è) solo se pensi siano un reale valore aggiunto e se lo si pensa (bene) serve necessariamente un cambio di approccio sia strategico che, soprattutto, nella creazione dei contenuti che questi canali devono poi popolare.
Ma torniamo al deceduto da cui siamo partiti, il piano editoriale. Il PED è (stato?) uno dei cardini che ha sostenuto quello che è stato definito social media marketing. Perché? Un po’ per cercare un terreno noto in un campo completamente nuovo per molti. Una sorte di coperta di Linus capace di dare un minimo di forma riconoscibile a qualcosa che riconoscibile non era. Senza poi contare che quando l’organico funzionava aveva senso avere uncerto tipo di frequenza (alta tendenzialmente). Ma soprattutto perché era (ed è ancora) più facile operare nell’ottica della frequenza a scapito della più faticosa (ma funzionale) consistenza.
E poi c’è il tema agenzie. Il PED serviva a giustificare lo spostamento di budget proveniente da altre attività e, spesso, a “vendere” questo benedetto social media.
Una situazione di comodo che, diciamolo, ha anche retto, ma che oggi fatica a trovare ancora spazio/senso. Sono cambiate/evolute le piattaforme, passando da essere social graph driven a content driven, ma ancor di più a cambiare sono stati scenario, cultura, utenti. Oggi viviamo immersi in una fluidità costante che fatica a darci appigli saldi e duraturi, con utenti che non sono più passivi, ma parte essenziale dell’equazione con i loro commenti e UGC. La community ha preso senso e sopravvento e oggi ci dà continui input che non possiamo più non considerare e che fatichiamo a inserire, nei modi e tempi corretti, in un PED.
Un po quello che accade anche con i trend, talmente rapidi da poter essere previsti con anticipo (il classico mese prima di produzione di un PED) e che necessitano di essere colti nell’immediato per essere utilizzati con costrutto.
Oggi ascoltare diventa ancora più cruciale, perché sono le community stesse a dettare i topic, il tov e i modi con cui vogliono essere raggiunte e che preferiscono per relazionarsi con un brand. Non comprenderlo rischia di limitare enormemente il nostro utilizzo di canali come i social, non solo di quelli come TikTok e Twitch, ma dello stesso caro e vecchio Instagram. Un concetto, in parte ancor più estremizzato dai creator.
Questo comporta due temi profondi: la rapidità di intercettare e reagire e il controllo o, meglio, la sua perdita. Sul primo punto il cambio radicale è connesso alla pertinenza e al contesto, elementi che faticano a sposarsi al meglio con il principio rigido della programmazione. Per la serie meglio un solo contenuto, ma rilevante e al momento giusto così da generare impatto reale.
Sul secondo basta ricordare quanto detto prima, il controllo sta passando di mano e ora è saldo in quelle dei creator, in primis, e degli utenti poi. Possiamo provare a indirizzare, ad affiancarci, non certo a imporre e in molti casi tocca anche rassegnarci perché i mercati tornano ad essere realmente conversazioni.
E se la gente ha il controllo torna preponderante la loro volontà di non voler vedere spot, ma contenuti utili, d’intrattenimento, capaci cioè di dargli un valore aggiunto.
Cosa ne deriva? Diverse cosine, ma andiamo per ordine:
Da data-driven a community driven: ascoltare lo abbiamo già detto e che bisogna partire dagli insight è cosa nota. La differenza oggi è che non cerchiamo più solo insight su cui sviluppare la nostra creatività, tracce su cui lavorare, ma ci troviamo a dover modellare qualcosa di più rilevante e definito.
Non si tratta più di mesi né di giorni, ma di ora e adesso: cambia il paradigma e così la dimensione temporale. Non penso più a cosa pubblicherò il mese prossimo o la settimana che viene, ma devo essere strutturato per cogliere day by day i segnali e tradurli, rapidamente, in contenuti. Un punto che necessita di un grande cambio anche lato cliente.
Non solo creare, spesso è questione di gestire: UGC, trend, conversazioni come detto non devono essere solo spunto per creare, ma molte volte solo elementi che vanno “gestiti”, integrati nella nostra comunicazione di brand.
Essere rilevanti: questo è ormai un cardine. Il peso di ciò che proponiamo deve fare la differenza al di là del numero di contenuti. Dobbiamo vincere la sfida per l’attenzione in uno scenario che dire competitivo ormai pari quasi banale.
Parlare alla giusta audience: un grosso limite del PED era anche quello di non calcolare troppo i differenti cluster di audience, preferendo contenuti “trasversali” che spesso però si dimostravano poco funzionali. Liberarsi dall’ingessatura del piano editoriale facilita la volontà di differenziare e valorizzare le diverse verticalità.
Ma se il PED è morto cosa ci resta oggi? La necessità di passare ad un concetto evoluto e più idoneo, in linea con branded entertainment e format: il palinsesto. Un cambio che non è solo semantico, ma sostanziale e che va nella direzione degli interessi, delle passioni degli utenti e delle verticalità che queste ospitano, trovando il punto in cui queste “intersecano” le necessità/caratteristiche di brand. È quel piccolo incontro che dobbiamo espandere e valorizzare al massimo.
Il palinsesto con i suoi format tematici diventa filo conduttore che ci permette di essere stabili, ma allo stesso tempo flessibili, di avere continuità sia quantitativa, ma soprattutto qualitativa, offrendoci una via entertainment per raccontare brand/prodotti con la corretta integration e di offrire ciò che ci utenti cercano e apprezzano. Un supporto meno rigido del PED, perché più “alto” e strategico e che permette di rispondere alla fluidità del contesto di cui aoprlavamo e soprattutto di lasciar spazio a quegli interventi quasi in real time ormai necessari (es. trend, integrazione di una campagna, collabs con creator, ecc).
Campagne e progetti da urlo
Carbonara a regola d’arte - Fratelli Beretta
My 2 Cents
Ho perso una gara importante questa settimana. Molto importante per il progetto in sé e per il brand coinvolto. Molto molto importante.
Non lo scrivo perché fa figo comunicare le sconfitte, molto mindset, ma per il motivo.
Ho perso per delle piccole “sfumature”. Questo il debrief sul risultato. Motivazioni che venendo da un team serio, di cui conosco la preparazione e che quindi sono per me assolutamente reali.
Il punto sta proprio nelle sfumature appunto. Un elemento che per me ben rappresenta quella dimensione, molto umana, delle piccole cose, dell’affinità, delle soft skills, dell’intangibile.
Cose che possono apparire atipiche in un mondo sempre più data-driven, ma che nel nostro lavoro rappresentano tanto, forse tutto.
Un tutto che contamina i progetti stessi e che non può essere non considerato. Come? Neanche io ho la risposta o forse solo in parte.
Ma quelle sfumature fanno sì che una persona capisca o meno, apprezzi o odi, la nostra prossima campagna. Non stupiamoci quindi.
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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