Mare, spiagge... e brand experience
Ciao sono Matteo e benvenuti in una nuova uscita di Digital Scenario.
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In questa uscita parliamo di experience o, meglio, di brand experience.
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Esperienze sì, ma la brand integration?
Sarà il caldo, ma quest’anno sono particolarmente suscettibile a osservare tutto in maniera più critica. Forse invece è solamente l’età o il mio grado di affaticamento e sopportazione al 17 Luglio.
È il 17 Luglio anche per i brand ed è forse proprio per questo che non mancano occasioni di vedere attivazioni esperenziali con protagonisti mare/spiaggia. Occasioni in cui rapportarsi con in consumatori in un momento di maggior relax (ne siamo poi così certi?!?) e in un contesto dal sentiment più positivo. Metto un attimo da parte i brand che hanno una connessione diretta con quel tipo di contesto (bevande, gelati, ecc), soffermandosi, invece, sugli “altri”.
Tutto bello, emozionante e immersivo, ma più ne vedo più mi vengono dubbi su obiettivo e, soprattutto, ricadute. Vado in concreto. Vengo da un weekend passato (per lavoro) al mare per un brand che è stato sponsor di un evento. Sì, un’esperienza direttamente sul mare. Bellissima. Erano molti gli sponsor dell’evento e, sarà deformazione professionale, non ho potuto frenarmi dal ragionare sull’impatto generato lato brand. Perché se è vero che l’esperienza per chi era lì è stata coinvolgente e di livello, ho più dubbi pensando a cosa sia rimasto di quei brand nella testa dei presenti grazie a questa sponsorship.
Basta la presenza del nostro brand seppur in un evento originale, d’interesse, vicino per settore, audience e mood?
Se penso quantitativamente, quindi agli spettatori presenti, alle audience raggiunte dai contenuti social del brand sull’evento e agli earned media sullo stesso (non fermandoci a fare valutazioni qualitative) la risposta è no. Ma il reale pensiero è su un tema prettamente qualitativo e si riassume in una semplice domanda: quale legame ho creato tra il brand e gli utenti? La risposta è meno banale di ciò che si possa pensare e traccia il confine, non così labile, tra una sponsorship e una (brand) experience.
Il reale problema è che spesso ci dimentichiamo di una parola accanto a experience - brand- appunto. Noi dobbiamo sviluppare non esperienze, ma brand experience, esperienze sì originali e coinvolgenti, ma in cui la marca abbia un ruolo di rilievo, sia questo a livello “pratico” che valoriale. Dobbiamo sviluppare quelle che il buon Giorgio Soffiato chiama Cattedrali del brand che, a mio avviso, danno un senso non solo allegorico, ma concreto di ciò che andrebbe fatto. “Luoghi” (fisici e non) che circondano l’utente e che gli facciano respirare (e vivere) il brand. Un po’ come fatto da Lego con i parchi tematici ad esempio o molte aziende con i musei d’impresa.
È proprio la parola brand che frega… e che infatti appare molto poco centrale in tante di queste activation. Eh sì, è un attimo più complesso di quello che tanti (troppi) pensano. Mettere due vele con il logo in una spiaggia può non bastare ecco, ma se brandizzi Cannes come ha fatto Miu Miu (e ci accosti una linea magari) o crei un vero e proprio bagno come Missoni il gioco cambia.
Il problema è, come spesso accade, a monte. Si tende a ragionare a ritroso eliminando gran parte (essenziale) di progettazione. Partiamo dall’occasione/evento/esperienza, facendosi spesso abbagliare, e non, invece, dalle necessità/obiettivi di marca. Un po’ il cortocircuito che spesso accade con creator e influencer. Ma così ci si dimentica in molti casi il nodo gordiano: l’integrazione di brand. E come dico spesso non il placement, ma l’integrazione appunto.
Ed è così che si perde per strada il dna e l’identità di brand e con esse gran parte delle opportunità connesse, accontentandoci spesso di adattamenti o di mettere semplici “bandierine” più per notizia che altro. Un senso di presenza più vicino al purché se ne parli che non ad una vera esperienza di marca.
Si deve sempre partire dal capire quindi chi siamo (davvero), riuscendo a far emergere posizionamento e valori di marca e facendo di questi degli elementi capaci di contaminare l’esperienza dell’utente, avvicinandolo al brand e facendogli vivere un rapporto diverso, coinvolgente, profondo.
Accanto a questo serve anche una valutazione dei consumatori/utenti, cercando di comprendere i loro behaviour, ma ancor di più quegli interessi/aspetti inerenti o connessi al nostro brand/prodotto, il vero terreno fertile su cui lavorare. Sì perché se siamo bravi la brand experience e la user experience dovrebbero collimare in modo armonioso.
Solo comprendendo gli utenti possiamo infatti immaginare esperienze coinvolgenti, ma ancor di più rilevanti. E quando parlo di rilevanza intendo capaci di lasciare un segno, trasformando gli utenti stessi da spettatori a veri player, persone direttamente coinvolte e attive nell’esperienza. Da consumatore a consumattore. Non c’è esperienza senza partecipazione. E in un marketing che riscopre prepotentemente le community questo non va mai scordato dato che le experience possono essere driver di aggregazione e coesione.
Per farlo, perché sia rilevante, è fondamentale la personalizzazione, così da darle il giusto fit per essere vissuta e apprezzata dagli utenti. Le esperienze sono personali e come tali vanno disegnate.
Ultima, ma non meno rilevante, è la consistenza, ovvero la capacità di far diventare l’experience parte di un disegno più grande o, meglio, completo. Oggi abbiamo miriade di connessioni con gli utenti in svariati touchpoint. Una giusta progettazione deve portare l’experience ad essere un gancio che poi possa declinarsi anche su altre piattaforme, accompagnando l’utente prima e dopo così da farne un volano nonché intersezione tra offline e online. E, tornando alle community citate prima, questi punti di contatto sono e saranno sempre più decisivi per il successo del nostro brand.
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Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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