Non dobbiamo piacere a tutti
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Oggi qualche riflessione sul conflitto in comunicazione e sulla necessità di non essere, sempre e per forza, accomodanti.
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La comunicazione è anche conflitto (aka non si può far contenti tutti)
Comunicare è anche prendersi dei rischi. Spesso lo dimentichiamo, in un livellamento (forse appiattimento) che ci vede passivi spettatori. Sì, perché sembra che il compito dei marketer sia far contenti tutti o, se non proprio tutti, una eterogenea moltitudine di persone.
Viviamo quindi in un equilibrio effimero, nato per contenere tante declinazioni, tutte quelle necessarie a “toccare” le diverse segmentazioni di quella moltitudine: siano esse trend, topic, aspetti culturali o canali. Sia chiaro, parlare a un pubblico vasto e diversificato non è sempre un male, anzi. Lo diventa nel momento in cui pensiamo di dover far contenti tutti, dimenticandoci che molti di quei “tanti” a cui vogliamo forzatamente parlare non sono interessati a noi, diventando solo un riempitivo utile a fare numeri (vuoti).
Questo appiattimento, intriso spesso anche di buonismo e politically correct all’eccesso, non può che portare a una calma piatta, magari accattivante e capace di attirare, ma difficilmente in grado di lasciare un reale segno e risultati profondi.
La comunicazione è fatta anche, e soprattutto, di contrasti e conflitti perché, in fondo, l’intrattenimento, la vita e noi stessi siamo fatti proprio così. È proprio attraverso il contrasto che possiamo lavorare per definire il nostro messaggio e generare una reazione, quella che troppo spesso manca e fa sì che i nostri contenuti si perdano, anzi, affoghino nel mare del digitale.
Solo così, con il conflitto, possiamo dare verità, spontaneità e creare un senso (e confronto) critico, capace quindi di fare la differenza.
Siamo troppo preoccupati delle reazioni e delle possibili crisi reputazionali, tanto che operiamo con il freno a mano tirato, dimenticandoci che una campagna senza hater o senza critiche negative significa che non ha funzionato. Un po' come nelle conversazioni online... solitamente, l’assenza totale di sentiment negativo non è figlia di una buona reputazione, bensì di scarsissima presenza, quasi assenza.
Certo, la reputazione conta, ancor di più nello scenario odierno che tende ad amplificare enormemente i “fail”, ma essere scomodi non significa per forza “fallire” o estremizzare il sentiment degli utenti.
Perché, cercando di non scontentare nessuno, si rischia di scontentare i nostri clienti più fedeli. Un ottimo esempio è la campagna sul MeToo di Gillette, che ha sicuramente ricevuto una risposta positiva da molti per la posizione presa, ma ha colpito negativamente i clienti storici, che si sono sentiti giudicati e colpevolizzati, senza motivo.
Certo, un minimo di rischio c’è e ci sarà sempre, ed è probabilmente giusto così. Per mitigarlo, è fondamentale analizzare in anticipo, comprendere i topic più spinosi per i nostri consumatori, quelli troppo polarizzati, e, soprattutto, avere strategie chiare di gestione della crisi, un punto fermo sempre e comunque. Perché le crisi non si evitano, si gestiscono.
La tendenza alla correttezza e al voler accontentare tutti ha “avvelenato” molto del concetto di purpose e ha spinto molti (troppi) brand a trattare temi come la diversity e la sostenibilità con superficialità, più preoccupati di non creare turbolenze che di trasmettere un reale messaggio (che forse non sempre c'era).
Come diceva Matte Flora su LinkedIn, molte di queste comunicazioni sono infatti “piene di “platitudes”, luoghi comuni al limite del redwashing e buone intenzioni; molte rischiano di crollare sotto il peso del rinnovato scetticismo pubblico e del pesante scrutinio a cui sono e saranno sottoposte, complice la polarizzazione e la strumentalizzazione politica”.
Non è un caso che in questi mesi stiamo assistendo a un abbandono di questo approccio da parte di molti marchi. Esempi come Harley Davidson o John Deere, e altre aziende, che hanno fatto marcia indietro sulle loro politiche DEI. Non si tratta di casi isolati, ma dell'inizio di una tendenza. Di per sé, non è una buona notizia, ma la risposta naturale a una strategia di approccio a questi temi (e alla loro comunicazione) non sempre idonea e strategica, a cui forse mancava la cosa più importante: avere davvero qualcosa da dire su queste tematiche, senza timori o paure, e non usarle invece come Gatekeeper “furbi” e un po' ruffiani.
Alla base c’è sempre la necessità di un dialogo. Un dialogo che non può che nascere da trasparenza e spontaneità, e che spesso deve portare con sé anche un minimo di conflitto, o meglio di contraddittorio. Dobbiamo abbracciare la complessità odierna e capire che non possiamo ragionare in termini di bianco e nero, giusto o sbagliato, e che, proprio per questo, non potremo MAI parlare a tutti né piacere a tutti.
Serve quindi capire meglio i nostri obiettivi, cosa vogliamo essere, chi sono davvero i nostri interlocutori e, con un approccio quasi antropologico, ampliare la nostra visione oltre il settore, verso una prospettiva ampia, direi socio-culturale.
Campagne da urlo
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Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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