Se gli influencer li abbiamo in casa
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Oggi parliamo di employee advocacy e di come questo possa essere un approccio di rilievo lato influencer marketing.
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L’era dei dipendenti testimonial
Scorsa settimana ci siamo soffermati sul concetto di fiducia, di credibilità e sulla conseguenze influenza “pratica” che queste possono generare. elementi strettamente connessi alla persona certo, ma che possono evolvere e mutare anche a secondo del contesto in cui “vivono” e dove, per forza, dobbiamo valutarle.
Più il settore o la verticalità necessitano di competenza più questa diventa un ingrediente cruciale lato trust. E in molti casi trovare figure da coinvolgere (creator o influencer) con tale know-how diventa estremamente complesso se non impossibile. Immaginiamo il B2B per esempio. Sarà assolutamente possibile trovare un esperto di settore, certo, meno qualcuno che ha questa competenza aggiunga un buon livello di awareness. Se sei un’azienda che produce valvole per il gas forse l’influencer marketing non fa per te, pur restando rilevante la necessità di comunicare.
In tal senso non è affatto casuale quanto le attività che coinvolgono le risorse umane in progetti di comunicazione siano sempre più diffusi e importanti anche a livello di risultati raggiunti. In molti casi infatti, l’esperto/gli esperti li abbiamo in casa. serve solo metterli a sistema in modo strategico. I tema aziendali sono una delle voci più credibili e competenti per promuovere il brand, i suoi prodotti, ma soprattutto la cultura aziendale. Una leva che può dare risultati importanti non solo a livello di comunicazione, ma soprattutto di partecipazione e mezzo per attrarre talenti.
Si parte sempre da ciò che si ha, e le risorse interne rappresentano un ottimo punto di partenza: visibilità, engagement, trust, competenze sono solo alcuni dei plus che possono dare alla comunicazione del brand. Ma andiamo per ordine.
Cos’è l’employee advocacy
L’Employee Advocacy è un termine che è profondamente cambiato e che ha acquisito un significato più profondo dall’arrivo dei social network. Volendo semplificare si tratta di far intervenire direttamente i dipendenti nella diffusione dei contenuti legati al brand (o al suo settore), condividendoli nei profili social personali. L’obiettivo è favorire il passaparola positivo (e competenziale) e rafforzare il marchio.
Il tutto in modo (o almeno dovrebbe essere) spontaneo e imparziale: i dipendenti devono condividere la loro esperienza come lavoratori e parte integrante dell’azienda. Una riprova sociale che viene direttamente da chi il brand non solo lo vive, ma ne fa parte e lo rende quello che è. Perché se è vero che la percezione esterna può anche essere diversa dalla realtà, lavorando su leve comunicative e creatività, lo è altrettanto che i lavoratori ne esprimono l’essenza più vera (e credibile).
E se queste “voci” differiscono tende a notarsi e creare problemi seri: inutile fare il tanto nominato storytelling per raccontarsi come realtà inclusiva se poi le nostre risorse esprimono, anche con il silenzio, ben altro messaggio.
Come attivare un progetto di employee advocacy
Mettendo al centro dell’attenzione l’interno di una realtà e agendo sulla reputazione bisogna stare molto attenti quando si decide di attivare un progetto di employee advocacy. Dobbiamo guardarci dentro nel vero senso della parola e capire se siamo realmente pronti per un attività del genere: capire la corrispondenza tra i valori dei dipendenti, la cultura aziendale e le condizioni di lavoro, per avere certezza di essere pronti. Se così non fosse la priorità è “sistemare” le cose, andando a lavorare sulla comunicazione interna per risolvere al meglio queste discrepanze.
Non farlo significa rischiare che emergano, in modo netto e pubblico, poi. Dobbiamo quindi essere un luogo, una realtà con cui si voglia realmente lavorare, talmente tanto da metterci con fierezza e convinzione la faccia. Quando i componenti di un team si sentono valorizzati, motivati sono più inclini a comunicare la propria esperienza positiva. Un percorso che deve lavorare sulla spontaneità e senza imposizioni.
Il passo seguente è dar vita ad attività specifiche di engagement a cui far seguire progetti verticali e, dato che parliamo di social, corsi di formazione per poterli utilizzare in maniera adeguata. Una policy di uso dei social è fondamentale: non tanto per regolamentare quanto per supportare i dipendenti e togliergli eventuali paure di commettere errori. In questo documento, in modo chiaro, devono essere segnalate tutte le linee guida di comunicazione, definendo cosa il dipendente può condividere e cosa no, una serie di keyword e tutti i topic a rischio.
In tal senso esistono molti esempi in cui aziende hanno dato vita a veri e propri gruppi di comunicazione spontanei. La banca americana Avidia ha lanciato ormai da tempo gli Avidia Smarties, un team riconosciuto di dipendenti attivi sui social che lavorano per dare un punto di vista diverso dell’azienda. Un vero brand che è diventato una voce parallela a quella ufficiale, potendo così attivare un tipo di comunicazione meno istituzionale, più idonea ai canali social e alle conversazioni che qui prosperano.
I vantaggi dell’employee advocacy
Sono molti i plus di far partecipare i dipendenti alla comunicazione aziendale. Alcuni più legati alla visibilità, altri molto più qualitativi e “profondi”, capaci, alla lunga, di essere un reale valore aggiunto. Vediamo i principali:
Dare voce al volto umano dell’azienda: umanizzare il brand e diminuire la distanza che spesso c’è con il target, un vantaggio concreto che può diventare realtà grazie ai dipendenti. L’approccio con l’employee advocacy non è azienda-utente, ma person to person, un dialogo tra persone appunto.
Sfruttare al meglio la passione di chi ci conosce al meglio: l’entusiasmo è coinvolgente e fa bene alla comunicazione (senza eccessi). I messaggi che raccontano la passione verso il proprio lavoro incidono positivamente sulla percezione della realtà.
Utilizzare la competenza del personale interno e la loro affinità rispetto agli utenti: ci sono settori, come accennavamo all’inizio, dove per comunicare correttamente serve necessariamente un know-how verticale. Settori B2B, bancario, assicurativo solo per citarne alcuni. Spesso abbiamo veri esperti in house senza rendercene conto, esperti che possono fare molto non solo per il nostro core business, ma anche per la comunicazione.
Far comunicare le singole persone, più credibili e spontanee del brand: le persone sono e saranno sempre più credibili di un’azienda, più veritiere perché non riconducibili immediatamente a interessi economici. I messaggi dei dipendenti creano così, anche perché sentiti come più naturali, più fiducia e relazione.
L’employee advocacy step by step
Far partire e mandare a regime un progetto di employee advocacy può non essere cosa semplice, eco quindi i passi necessari a farlo al meglio e senza rischi.
Partire piano: Identifica potenziali influencer all’interno dell’azienda è il primo passo. Contattateli e utilizzateli come beta tester del programma. Offriranno feedback e spunti di miglioramento e, quando a regime, saranno guida per le altre figure che vorranno diventare brand ambassador.
Rendere chiari i vantaggi: I dipendenti, per essere ingaggiati al massimo, devono giustamente vedere dei vantaggi in questa attività per l’azienda. Questo è un passaggio fondamentale in cui essere estremamente chiari e trasparenti. I plus per loro potrebbero essere un aumento di visibilità e credibilità come esperti in materia, ma è consigliabile anche lavorare con incentivi. Chiedere direttamente a loro aiuta a farli sentire coinvolti.
La spontaneità è un valore: Se si vuole forzare i dipendenti a partecipare o condividere contenuti il nostro progetto avrà vita breve. Ne scaturiranno poi contenuti che rischiano di non dare reale vantaggio al brand e alla sua reputazione. Facciamoli sempre sentire “parte” del programma, mai solo strumento. Il riconoscimento o una ricondivisione sui principali account social dell’azienda può aiutare in tal senso.
Effetto gamification: Far diventare l’advocacy un gioco favorisce il coinvolgimento e l’impegno dei dipendenti. Molti tool aiutano a fare ciò, ma è la strutturazione che deve tenerne conto per funzionare. A volte basta poco, come creare un hashtag dedicato e tenerlo monitorato per vedere le performance dei diversi post e fare delle classifiche a cui collegare riconoscimenti o premi.
Semplificare l’azione: Semplificare i processi rende più agevole e invoglia a partecipare. L’utilizzo di un tool a supporto, la creazione delle policy di comunicazione sono un primo passo. Il secondo è dar vita a contenuti interessanti o divertenti da condividere.
Ciò non significa bloccare la loro creatività, spesso capace di dar vita a contenuti realmente “diversi” da quelli aziendali e quindi più performanti. I dipendenti Lush sono un ottimo esempio, creando con i loro user generated content un senso di comunità tra loro e i loro clienti.
L’employee advocacy come via per l’influencer marketing
In un influencer marketing che punta spesso sui micro-influencer , l’utilizzo dei dipendenti va perfettamente in questa direzione. Influencer dall’audience minima ma molto credibili grazie alla loro affinità con gli utenti. Un’affinità che fa percepire e che è spinta al dialogo.
Valori che in particolari settori diventano vincenti: unendo alla competenza quell’approccio umano che tanto piace agli utenti e che è spesso difficile proporre per realtà spesso molto istituzionali. Un modo per valorizzare il brand, prodotti, servizi, ma ancor di più lavorare sulla reputazione. Un’obiettivo ambizioso che necessita di pazienza, ma che è e sarà sempre più determinante per le performance delle aziende.
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L’impatto, concreto, di #TikTokMakemeBuyIt i #BookTok vanno in questa direzione.
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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