Se il contenuto diventa commodity
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Oggi parliamo di commodity e intrattenimento.
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Se il contenuto diventa commodity
Mi trovo molto spesso a chiedermi quale sia l’impatto che il concetto di entertainment e, quindi anche di branded entertainment, stia avendo non solo sulle strategie di brand, ma soprattutto sugli utenti.
Una è senza dubbio la centralità (guadagnata o ritrovata) del contenuto e il suo ruolo nelle dinamiche di fruizione (e di vita) degli utenti. Un ruolo che ne ha plasmato la consapevolezza, le scelte, ma soprattutto le abitudini e conseguenti aspettative. Non certo una banalità. Così come ha delineato la forma delle piattaforma stesse, dagli algoritmo che le dominano, all’advertising, passando per i diversi formati. Una corsa al contenuto e all’impatto che questo ha (o dovrebbe avere).
Il primo risultato di tutto questo è senza dubbio l’enorme abbondanza di contenuti a cui siamo sottoposti e le dirette conseguenze. Se quello più “classico” è relativo all’issue dell’attention, l’altro, il vero elefante nella stanza, è che il contenuto sta diventando sempre più una commodity.
Rilevante (meglio) o meno gli utenti sono talmente abituati al contenuto, assuefatti alla necessità dell’intrattenimento, da dare quasi per scontato ciò che gli viene proposto o meglio, a farla diventare un’abitudine con tutto il buono (e il brutto) che questo porta. Una democratizzazione dell'informazione e dell’entertainment che ha ridotto il valore intrinseco dei contenuti stessi, trasformandoli in una commodity, in qualcosa cioè di facilmente sostituibile. Che siano branded, di creator o influencer o UGC, gli utenti possono sempre trovare video e post per rispondere a questa sete.
Un’over-esposizione che ha spinto a percepire il contenuto come omogeneo e facilmente sostituibile, riducendo così la sua capacità di attrarre e trattenere l'attenzione del pubblico. Colpa dei trend, delle bubble prodotte dagli algoritmi, dalla tendenza a produrre sempre e comunque rispondendo ad una esigenza di “copertura” più che comunicazione, di persistenza più che di valore.
Se la risposta più ovvia passa dalla sempre citata rilevanza, dallo sviluppo di experience coinvolgenti, nonché dalla personalizzazione (temi di cui ho parlato spesso), ce ne sono altre che non di meno diventano cruciali nella loro scarsa considerazione. Spazio e tempo.
Partiamo dal primo. In un contenuto comodità il canale dove pubblico diventa un elemento assolutamente più cruciale di quello che molti possano pensare. Un luogo che diventa non solo spazio espressivo, ma elementi stesso della comunicazione, differenziante capace di dare senso e impatto a ciò che mostrerò. Non solo. Di dare spazio alle conseguenze che quello contenuto dovrebbe produrre (conversazioni, interazioni, ecc). In questo senso non è solo una mera questione di dove sia la mia audience (fondamentale certo), ma di dove il mio contenuto possa emergere, completarsi, arrivare nel senso più profondo del termine agli utenti. Una questione di momento (ci arriviamo), di formati, di integrazione.
E se il dove conta, pesa anche il quando appunto. E non parlo tanto di orario ovviamente, quanto del momento in cui la fruizione avviene. Una componente che ne condiziona enormemente anche l’impatto. Qualcosa però di difficilmente prevedibile, certo, ancor di più oggi che l’organico non esiste più e che a segnare il passo è la spinta media e la connessa distribuzione.
Due elementi, canale e timing, strettamente e ovviamente connessi. Se lavoro su twitch, per la durata delle live e la tipologia di contenuto molto probabilmente lo fruirò dopo cena perché avrò necessita di una qyantità notevole di tempo per vederla. Valutazioni che quindi vanno di pari passo e che vengono influenzate dal concetto stesso di intrattenimento (un certo tipo di contenuto ci “consiglia” spesso come e quando consumarlo). Uno sviluppo dei contenuti che, quindi, deve partire e integrare al massimo, una valutazione olistica di fruizione, di esperienza, immaginando in modo completo cosa farà l’utente.
Chiudo con una provocazione: se il contenuto è commodity conta di più esserci o non esserci? Per la serie si accorgeranno (e ricorderanno) di più di me se ci “sono” con i miei contenuti o se “non ci sono”? Un po’ come la storia della feste delle medie. Qualcosa già, in parte, testato da grandi marchi che in alcune occasioni sono “uscite” da alcuni canali rendendo questa assenza essa stessa messaggio, contenuto.
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Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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