Se lo storytelling non narra più
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In questo caldo agosto facciamo due riflessioni su storie, narrazione e storytelling.
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Lo storytelling che non c’è
Siamo fin troppo abituati alla narrazione. O almeno così crediamo. Ci siamo assuefatti al concetto di storytelling e a tutte ciò che questo comporta. Un’eredità non solo online. Ormai utilizziamo lo storytelling, le storie, in contesti estremamente vari e diversi. Un utilizzo figlio quasi dell’abitudine, del trend, più che di una sana consapevolezza e di un’utilità pratica.
Le storie danno contesto, aumentano (spesso creano) il valore di un brand/prodotto, generano connessione con gli utenti in uno scenario estremamente competitivo e saturo di contenuti.
Ma storytelling e narrazione non sono sempre la stessa cosa. Lo pensiamo, ci piace crederlo, ma non è affatto così. Spesso ciò che deriva da questo storytelling spinto all’eccesso è proprio un evidente vuoto narrativo, inteso come capacità di trasmettere un valore, un reale Senso che non siano per forza collegate alla vendita.
La comunicazione ha preso in prestito le tecniche della narrazione proprio per questo, da un lato per generare empatia e creare relazioni con gli utenti, dall’altro per dar forma ad un concetto più ampio ( e funzionale) di brand. Sì perché le storie permettono di lavorare in estensione, colmando i vuoti, meglio, valorizzandoli. Un’estensione che però troppo spesso diventa stretching, ovvero deforma e sfilaccia il senso, il valore dietro il nostro racconto. Una deformazione che è spesso mistificazione del reale, una mistificazione non utile ai fini ella narrazione stessa, necessaria al funzionamento di ogni storia, ma del soggetto, dando vita un pericoloso cortocircuito tra storia e realtà.
Lo storytelling, la narrazione, che diventa storyselling, è di per sé lontano al concetto di narrare che dovrebbe essere alla base. Mancando senso, realtà e spingendo verso la deformazione orientata alla vendita, la narrazione non diventa infatti più mezzo, ma oggetto stesso, significante al di là del soggetto di quei racconti. Questi sono anch’essi oggetto di consumo che sfamano la necessità, superficiale, delle persone di avere contenuto (non storie eh).
Il sovra-utilizzo, l’applicazione incontrollata portano la necessità di applicare schemi e strutture che facilitano sì da un lato la creazione andando a bilanciare quel gap di senso e verità che molti brand hanno. Non portano per questo valore a chi legge/vede/ascolta, ma cercano di darne al prodotto al centro della nostra storia. Ma non solo.
Il problema è che spesso non siamo più abituati a realizzare, ma ancor di più a fruire storie. Manca la pazienza, la necessaria disponibilità di ascolto inteso in modo profondo, la comprensione. Lavoriamo a contenuti che non vanno dall’alto in basso, dalla superficie al profondo, ma che si formano aggiungendo layer dopo layer, così da rispondere a diverse esigenze: il senso, estremo e continuo di novità, la necessità di tenere sempre in alto nell’”agenda” quel contenuto stesso perché non si perda, l’obbligo di passare da un wow ad un altro, dall’hype del momento al prossimo per dare “spessore” a ciò che spesso spessore non ha.
Un lavoro solo di pieni “apparenti”, ma che sottovaluta, appunto, la necessità dei corrispettivi vuoti, delle pause, in poche parole dei tempi che sarebbero propri della narrazione.
I tempi dei social e le abitudini egli utenti ci spingono ad offrire tutto e subito. E questo si traduce non tanto ad adattare il narrare o frammentarlo, ma a comprimerlo rinunciando al suo substrato, la parte interiore, il significante.
Siamo rapidi, ci diciamo, per intercettare rapidamente gli scarsi momenti di attenzione degli utenti, ma in realtà così, dando valore solo al momento e alla superficie, non facciamo che diminuirla ulteriormente, renderla ancora più rarefatta.
Con tale superficialità il nostro racconto, che dovrebbe essere empatico, relazionale, diventa semplicemente informazione visiva e come qualsiasi informazione questa ha valore sino alla prossima. Anche i video hero i contenuto fortemente creativi hanno questo problema. Il fatto che siano d’impatto non significa che riescano a trasmetterci una storia, la loro storia.
Lo stesso utilizzare accanto a termini come storytelling, entertainment e simili la parola brand è un ossimoro, la migliore evidenza di quanto spesso ci troviamo a demolire dall’interno quelle stesse pratiche. Lo facciamo per comodità, per identificarli certo, ma non scordiamoci che l’intrattenimento è intrattenimento. Punto. E resta tale, ad esempio, anche quando c’è di mezzo un brand.
Per ovviare a tutto ciò manca la progettualità, la persistenza, il dar vita ad atomi di storie che unite possano avere la completezza necessaria. Ma soprattutto manca la volontà insita dietro al narrare, nel farlo tornare ad essere medium e non cellula autoportante, meccanismo per generare sintonia.
Non a caso le storie non sono per tutti, inteso sia per chi le produce, per i brand che le utilizzano, per gli utenti che le fruiscono.
Campagne da urlo
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Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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