Tra branding, utenti e diffusione: la sfida della content creation
Dal concetto di qualità a quelli di funzionale e rilevante
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In questa nuova uscita vi parlo di un pranzo con un amico e di cosa significa creare branded content oggi.
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La qualità non è sinonimo di bello e originale, aka siamo marketer
Parlavo ieri a pranzo con Niccolò (Di Vito) di Agenzia Brief e della newsletter “Video belli e dove trovarli” (se non la seguite è il momento di farlo). Ci troviamo ogni tanto, tra amicizia e partnership lavorative, e quando possiamo ci confrontiamo sui temi “caldi” del nostro lavoro.
Siamo diversi. Molto. Lui è più un creativo prestato al marketing e alla comunicazione con una vocazione, quella dei video, netta. Sono proprio queste differenze a rendere interessanti i nostri confronti. In particolare, ieri, eravamo come spesso accade a ragionare sulla qualità dei contenuti che i brand utilizzano sui social e da lì, piano piano, siamo scivolati sul rapporto tra branding (e sua difesa) e rilevanza del messaggio da un lato e, dall’altro, performance e “gusto” collettivo, in particolare degli utenti.
Per lui la qualità deve sempre essere alta e il driver deve essere il brand, a discapito, magari, di diffusione e risultati. Per me diventa invece impossibile non guardare anche all’utente e, soprattutto, a non dover fare i conti con l’ottimizzare il budget in ottica anche di diffusione. Per la serie inutile fare un contenuto mega top se poi non ho budget idoneo per spingerlo data la bassa valenza dell’organico. Certo, questo magari vale meno (ma non troppo) se sono un love brand o se ho la forza di spingere lato PR il tutto.
Per me la parola strategico significa appunto trovare la congiunzione tra queste due anime. Ma ci torniamo dopo.
Adesso vado oltre: ha senso investire cifre importanti per dei contenuti che hanno un tempo di vita e, spesso, una funzione limitata (es. il mio palinsesto mensile di TikTok)? Magari togliendo soldi a progetti che devono essere e ha senso siano davvero bold?
Il problema è che Nicco ha ragione parlando di branding: tutto quello che facciamo dovrebbe guardare al brand e ai suoi obiettivi. Tutto dovrebbe dare un senso univoco, rafforzando così percezione e posizionamento. Ma, guardando al reale, mi viene un bel dipende. Ogni canale, ogni attività ha funzioni diverse che vanno considerate. Ma poi, siamo onesti, quante aziende oggi fanno davvero e con coscienza branding? Poche onestamente. E spesso quelle poche lo fanno comunque alla cieca, senza la minima considerazione dell’esterno o, peggio, sulla base di proprie congetture storiche senza rendersi conto che tutto cambia o è già cambiato. E usare tutto questo come driver principale, se non è del tutto corretto, diventa pericolossissimo.
Perché? Perché manca un pezzo: gli utenti. Anche il branding, fatto bene, dovrebbe infatti avere un unico obiettivo: facilitare la creazione di relazione con i consumatori e poi vendere. Non è qualcosa che può nascere solo dal parere/gusto/convinzione di un founder e del suo team. Bravi che siano.
E se ieri si poteva lavorare per far diventare questo “personale” “globale” oggi con i social cambia tutto in modo radicale. La Teoria della Coltivazione di George Gerbner, secondo cui i media (e di conseguenza i brand) contribuiscono a forgiare l’immaginario collettivo, proponendo un frame della realtà che, a forza di ripetizioni, diventa “norma”, dall’arrivo dei social si è completamente ribaltata. Oggi sono gli utenti, i creator e gli algoritmi a segnare questo immaginario facendolo diventare condiviso e d’interesse per la collettività. I trend e i meme, piaccia o no, vanno proprio in questa direzione.
Come scrive il buon Matteo Flora:
Oggi assistiamo a una sorta di “neo-gatekeeping” affidato all’intelligenza collettiva degli utenti: un esperimento di wisdom of the crowd, in cui ciò che conta è la “votazione” popolare.
Certo è però che se aziende e piattaforme rinunciano al proprio ruolo di driver, c’è il rischio che questa marea di contenuti (e conseguentemente l’immaginario collettivo) non sia governata da alcun criterio di rilevanza, lasciando il posto a meccanismi di popolarità virale, che spesso, purtroppo, ricadono in pericolosi fenomeni di echo chamber e filter bubble.
Ed è qui che torna quel concetto di strategico, cioè il trovare il corretto equilibro tra branding (e rilevanza quindi), behaviour degli utenti e diffusione (risultati).
Non posso infatti non guardare il contesto, ma non posso allo stesso tempo accettare passivamente tutto senza preoccuparmi dell’impatto che genero all’esterno, ma anche all’interno. Una questione di percezione, di heritage e di costruzione di un immaginario che possa essere solido e quindi riconoscibile nei suoi elementi/valori principali. Senza dimenticare che cpsì significherebbe limitare il condizionamento dato dall’andamento della social sfera.
Ma non posso neanche pensare di guardare solo a me stesso e a idee di livello, ma magari scollegate da quello stesso contesto, dal pubblico e magari dai miei obiettivi (oltre che dal budget). Avrò qualità sì, ma non funzionale (ecco che torna) e un costo/performance probabilmente non adeguato.
Direi che è un gioco di equilibri tra elementi quali:
Un gioco in cui la “qualità” di cui parla Niccolò è importante certo, ma non sempre l’unica priorità e, comunque, subordinata ad un concetto vicino, ma più in linea con le esigenze dei brand: la rilevanza.
E nella scelta c’è sempre da ricordare (bene) che esistono momenti e contenuti diversi. Mi viene alla mente il concetto di trend di TikTok e il climax da semplici “stimoli creativi” a “Trasformazioni comportamentali”. Credo sia uguale lato contenuti: nel nostro palinsesto servono contenuti più Snackable, altri più bold che uniscono anche elementi branding oriented e, infine, altri che sono nati solo ed esclusivamente per raccontare il dna di brand. Proprio come gli hero, hub e hygiene content descritti da Mark Shaefer.
La difficoltà non sta solo nel mixarli però, ma nel renderli nelle differenze iperconnessi, proprio come si dovrebbe fare in un approccio transmediale.
Ma per orchestrare tutto questo serve e servirà sempre di più conoscere. La customer intelligence è una possibile soluzione: utile a riconoscere i trend, ascoltare la voce delle audience e capirne idee, interessi, necessità.
Non un freno al flusso creativo che piace tanto a Nicco, ma semmai un indirizzo da abbracciare e sfruttare. Ma per davvero e con fiducia e non per mettere qualche chart colorata in più in pptx di format già pronti e, ad andar bene, leggermente personalizzati.
Ripetiamolo insieme:
non siamo artisti e qualità e “bello” non fanno rima, per forza, con utile e rilevante.
E se proprio vogliamo percorrere la strada Nicco dobbiamo allora essere in grado di comprendere questo maggiore impatto del branding, della qualità, ampliando in modo netto e cambiando il paradigma lato misurazione. Se non è possibile (o non siamo in grado) vi dico un segreto: c’è un problema.
When Sally Meets Hellmann’s - Hellmann’s
Insight del Mese
Evoluzione rapporto GenZ e social - GlobalWebIndex
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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