Virale non sempre conta
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Ti serve davvero essere virale?
Viviamo un tempo digitale in cui “draghi” del marketing e guru dei social media spesso incitano ad un obiettivo supremo: diventare virali. Sarà la inconscia volontà di fare massa, l’ego del risultato quantitativo e della visibilità a tutti i costi, ma questo è. Una spinta estremizzata da canali come Instagram prima e poi TikTok, dove il concetto di “andare in trend” e di rendere virale un contenuto sembra sempre cruciale, anzi, l’unica cosa che conta. Come se il milione di views (che views poi) siano la panacea a tutti i mali, la risposta a qualsiasi finalità di brand.
Una ricerca cieca della viralità che nasconde una verità fondamentale: il chi raggiungo conta. Eccome. Traducendo, raggiungere il giusto pubblico anziché puntare ciecamente alla fama effimera è qualcosa che nella sua ovvietà non sempre trova riscontro.
Come afferma Seth Godin in "Tribes: We Need You to Lead Us":
Non si tratta di raggiungere tutti, ma di raggiungere le persone giuste.
“Tutti” non sono audience di interesse per noi, “tutti” non sono buyer personas, “tutti” non diventeranno nostri clienti. Ne deriva la necessità, che racconto spesso, di capire, di comprendere le nostre audience e le loro caratteristiche. Se non so il “dove” vivono digitalmente, difficilmente sarò in grado di raggiungerli.
… e raggiungerli non basta però. Se non saprò i loro interessi, le loro necessità non riuscirò ad essere rilevante. La viralità non ci garantisce necessariamente un coinvolgimento significativo o un'azione da parte degli utenti.
La vera sfida verterà sempre più sulla rilevanza, non sulle impressions/views. Una challenge che per essere giocata necessità però di strumenti e competenze diverse, da quelle analitiche a quelle autorali.
È fin troppo ottimistico pensare che un video virale o un post social che raggiunge milioni di persone automaticamente trasformi gli spettatori in clienti o sostenitori fedeli. Al contrario, concentrarsi sulla costruzione di una connessione significativa con il proprio pubblico target è ciò che può generare un impatto duraturo.
Facciamo contenuti per arrivare al nostro pubblico e per generare influenza prima e reazione poi. L’awareness da sola non può sempre bastare. Una rilevanza, tra l’altro, che nel lungo periodo deve trovare un equilibrio e la gusta integrazione di prodotto/servizio. I contenuti di Redbull sono estremamente rilevanti certo, affini alla propria audience, ma poco product oriented. Un approccio che per Redbull funziona… ma non siamo tutti Redbull. E bene ricordarselo.
Inoltre, la viralità può portare a una distorsione dei messaggi e della percezione di marca. Come avverte Ryan Holiday, autore di "Trust Me, I'm Lying: Confessions of a Media Manipulator" (che consiglio vivamente):
Essere virali è facile. Tutto ciò che devi fare è lanciare fango contro la parete dell'internet e vedere cosa si attacca.
La ricerca ossessiva della viralità può portare a strategie che sacrificano l'autenticità e la coerenza del marchio per il puro sensazionalismo o per la cieca rincorsa dell’ultimo trend, senza una minima validazione sulla vicinanza al brand, ai suoi valori, ai suoi obiettivi. Qualcosa che può far perdere l’identità di marca o, peggio, danneggiarne la percezione nel lungo termine.
Senza dimenticarci che viviamo sempre più un‘era in cui la personalizzazione è e sarà sempre più un elemento cruciale per condizionare le scelte di acquisto. Vale, in parte, la stessa cosa sui contenuti. Lavorare taylor made significa dialogare con gli tenti e generare relazione. Relazioni autentiche e rilevanti con il proprio pubblico target con cui i brand possono ottenere risultati più significativi e duraturi.
Campagne e progetti da urlo
Icone a Sanremo - Netflix
My 2 Cents
Scrivo spesso di immaginari collettivi e di “impianti” culturali. Ci credo davvero che possano essere la leva per lavorare, realmente, sulle community, vera risorsa nel prossimo futuro digitale.
Questa settimana guardando l’impatto, offline e online, di Sanremo e del Superbowl non posso non pensare che queste dinamiche siano un reale differenziale per il futuro.
La vera sfida oggi è quella di intercettarli, domani quella di saperli progettare considerando anche le diverse “ricadute”, personalizzando non tanto il contenuto che ne deriva, ma la fruizione.
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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