Se i trend non sono di tendenza
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Un segnale non fa una tendenza
Per chi creiamo contenuti? Come decidiamo che forma devono avere e quale messaggio passi?
La risposta da marketer dovrebbe essere semplice, ma non lo è. Ne scrivevo qualche tempo fa, parlando di come ormai il referente principale stiano diventando gli algoritmi delle piattaforme più che gli utenti, nella rincorsa ad un organico che in realtà pare sempre più sbiadito.
La continua ricerca del real time marketing (con le conseguenti giornate di, il dover dire la propria su tutto e i giochi di parole, troppi giochi di parole) e del trend sono uno dei migliori esempi di questa progettazione artificiale.
Partiamo proprio dai trend, tema che tocco spesso. Una volta parlare di trend significava concentrarsi su un cambiamento sociale che andava a toccare e influenzare in modo significativo comportamenti e immaginario collettivo, diventando parte integrante. Un elemento realmente culturale e spesso, molto spesso, duraturo. Oggi invece il trend è svuotato da gran parte di tutto questo, andando a sembrare più un “segnale” momentaneo che una vera tendenza, ma, ancor più importante, non nasce come dovrebbe essere dalla gente, dagli utenti, ma spesso è sviluppato dall’algoritmo stesso che decidendo in modo non sempre oggettivo, tende non tanto ad essere arbitro, quanto designatore.
Un punto che i brand hanno capito, pensando di sfruttare questi segnali social (più che sociali) come scorciatoie: visibilità + presenza in conversazioni hot + appeal da brand sul pezzo = vendite. La convinzione di questo è spesso basata sull’apparenza e la presunta “viralità” più che su insight concreti. Anche perché misurare tutto questo è complesso, tanto complesso da ricadere su views e UGC. Forse poco.
Ma non solo. Cavalcare i trend serve anche a nutrire la bestia del “pubblicare” spesso e per forza, anche senza avere cose rilevanti da dire.
In una ricerca uscita di recente negli stati Uniti, quando si è chiesto a 1.500 persone in tutto il mondo se avessero sentito parlare di 10 "tendenze" più discusse tra i marketer online il 43% non ne ha sentita nemmeno una (fonte: “Modern Movements > Trends” Reddit & Attest, Jan 2023, n=1,500 (US, UK, FR & AUS).
Nel frattempo, tra il 57% delle persone che hanno sentito parlare di una di queste "tendenze" principali, meno della metà ha tentato di parteciparvi.
Ma al di là dell’impatto sugli utenti, molto meno rilevante appunto del previsto, ciò si traduce in perdita di rilevanza, in una grossolana e pericolosa spersonalizzazione dei brand, più attenti al fit col trend che non su loro branding, tone of voice, obiettivo.
Ma anche quando il trend scelto è rilevante, spesso sorgono altri problemi, in primis la mancanza di affinità/naturalezza.
Non tutti i trend vanno bene per qualsiasi marchio.
Secondo la bulimia di questi contenuti che invadono prepotentemente le feed dei brand e si susseguono tanto velocemente da stordire l’utente.
Ci concentriamo troppo su cosa funziona lato algoritmi e hype perdendo purtroppo per strada il commensale più importante: l’utente. Perché? Perché è più semplice e, ad una prima occhiata superficiale, più "redditizio" a suon di milioni di view reale certo, ma montate più che costruite. View che pesano poco perché spesso non lasciano nessun ricordo o idea di noi e del nostro prodotto, eliminando del tutto l’enorme differenza tra entertainment e brand entertainment. Lo dico sempre, intrattenere oggi è un must, ma lo è anche essere utili e quindi guardare in profondità quegli utenti.
Intrattenere e seguire i trend ha poi un costo enorme (spesso sottovalutato) che, come abbiamo detto, non sempre ripaga se sviluppato in questo modo. Una malattia di presenza eccessiva frammentazione che ha ben spiegati Gianluca Diegoli Venerdì scorso. Perché ok presidiare i micro-momenti, ma quelli rilevanti per gli utenti (e per il brand).
Dobbiamo tornare, lato azienda, alla volontà di analizzare e scovare insight veri, che lascino il segno a favore del brand. In un mondo tutto data-driven abbiamo perso però la capacità di approfondire e contestualizzare o, peggio, demandiamo troppo a report esterni spesso neanche troppo calati o personalizzati.
Non devo tanto trovare le conversazioni hot, quanto quelle hot per i miei potenziali clienti e, ancora meglio, scovare i driver, le ragioni che le muovono. Non è tanto importante vedere cosa è di tendenza, quanto capirne il perché, così da lavorare su questo più che sul trend in sé stesso che è solo un prodotto di tali radici.
E quindi, cosa fare? Ricordarsi che parliamo pur sempre di marketing e da lì si dovrebbe partire.
Forza: il trend ha davvero la giusta rilevanza per imporsi e lavorare sotto traccia a livello socio/culturale? Se la risposta è sì conviene lavorarci.
Man VS Algorithm: il trend ha impatto per gli utenti o per l’algoritmo?
Il gioco vale la candela a livello di risultati? Posso misurarli? Se non posso (o la risposta sono solo le views) mi devono venire tanti tanti dubbi.
Campagne e progetti da urlo
Inside Your Sound - Borotalco + Spotify
My 2 Cents
Non parlerò del caso The Borderline. Lo trovo poco utile al dibattito e a farne nascere riflessioni utili. Bisognerebbe ragionare a monte di alcuni problemi lato digitale e creator economy. Non a valle.
Credo però che l’episodio meriti un pensiero sulle criticità che possono nascere da collaborazioni brand/creator poco ponderate. Perché la crescente rilevanza dei creator e il loro conseguente maggior coinvolgimento da parte dei brand nelle proprie attività porta con sé opportunità rilevanti, certo, ma anche possibili rischi.
Criticità che aumentano con il crescere di centralità di tali attività e, soprattutto, con i budget impiegati.
I creator, seppur di grande valore, restano infatti figure esterne, spesso giovani e quindi non sempre con un livello di esperienza consono alle necessità dei brand. E per la natura stessa di una collaborazione che funzioni devono avere la giusta libertà di “movimento” ed espressione, rendendo la gestione da parte dell’azienda ancora più limitata e quindi complessa.
Serve un approccio sempre più strategico nelle progettualità e nelle attivazioni, valutando il coinvolgimento dei creator attraverso strumenti idonei che forniscono dati e insight profondi ed evoluti. Dati i budget in campo (e i rischi possibili) non possiamo più rinunciare a questo tipo di approccio, unica soluzione per limitare al minimo errori e problemi.
Comprendere elementi come le caratteristiche delle audience, gli interessi, i topic trattati, lo stile, sino ad arrivare a valutazioni della sua reputation, fattore decisivo.
Quando lavoriamo con un creator gli demandiamo infatti il “volto” del brand, esponendoci a rischi connessi anche alla sua attività extra collaborazione. Il caso dei The Borderline è emblematico.
Valutazioni complesse in cui integrare più dati insieme. Per questo, con 40Degrees, abbiamo realizzato R.E.L.E.V.A.N.C.E. una metodologia esclusiva multi-kpi che ha proprio il compito di offrire valutazione complete ed esaustive dei creator, analizzandone tutti gli aspetti decisivi.
Criticità certo che però non devono farci dimenticare le opportunità. È innegabile infatti che i creator permettano alle aziende di massimizzare le performance delle proprie campagne grazie al lavoro che questi fanno sulle loro audience, spesso estremamente vaste numericamente, alla capacità relazionale e alla autorevolezza/credibilità che gli vengono riconosciute. Non solo, oggi anche le loro capacità creative sono una risorsa preziosa perché “tarate” perfettamente sulle caratteristiche delle diverse piattaforme e in linea con le abitudini di fruizione degli utenti.
Insight del mese
In Italia ci sono 350 mila creator attivi secondo una recente stima di Assoinfluencer (oltre 300 milioni nel mondo). Un dato che cresce del 20% anno su anno.
Se non ci conosciamo, io sono Matteo Pogliani, sono un esperto di comunicazione e new media, autore, keynote speaker e docente in realtà come NABA e 24 Ore Business School.
Sono Partner e Head of Digital di Openbox, CEO di 40Degrees e uno dei più noti esperti nazionali nell’ambito dell’influencer marketing.
Ho scritto i primi volumi italiani sul tema: “Influencer marketing: valorizza le relazioni e dai voce al tuo brand” e “Professione Influencer” editi da Dario Flaccovio Editore.
Sono inoltre founder dell’ONIM, l’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing e dal 2021 nel board dell’academy di OBE, l’Osservatorio sul Branded Entertainment e tra i responsabili dell’Influencer Marketing Committee.
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